venerdì 31 agosto 2018

Narrare la Bellezza - seminario di formazione per i docenti di Mirto Crosia (CS)



Giovedì 11 settembre 2018, dalle ore 15:30 alle ore 18:30, nel centro storico di Rossano Calabro (CS) presso il Museo Diocesano - in cui è custodito il Codex Purpureus Rossanensis manoscritto onciale greco del VI secolo dichiarato Patrimonio dell'Umanità UNESCO - terrò un seminario di formazione per i docenti di Mirto Crosia (CS) dal titolo Narrare la Bellezza - Tecniche e spunti di invenzione narrativa e di scrittura per raccontare ai più giovani il patrimonio storico-artistico-culturale di un territorio organizzato da UCIIM sezione Mirto - Rossano in collaborazione con l'Associazione Rossano Purpurea e il Museo Diocesano. 

Seminario di Formazione

Narrare la Bellezza
Tecniche e spunti
di invenzione narrativa e di scrittura
per raccontare ai più giovani
il patrimonio storico-artistico-culturale di un territorio
di
Luigi Dal Cin

L’autore di libri per ragazzi Luigi Dal Cin propone un seminario di formazione per rafforzare un elemento a volte atipico per i percorsi d’arte, i monumenti e i musei ma ben frequentato da bambini e ragazzi, uno strumento potentissimo: la narrazione. Al pubblico dei giovani visitatori di un percorso d’arte o di un museo, infatti, interessano sì le informazioni storiche, artistiche, culturali, ma ancor di più l’avventura. Un'avventura raccontata con veri intrecci (un vero inizio, dei veri colpi di scena, un vero finale) e veri personaggi (non deboli personaggi guida, semplici funzioni pretesto utilizzate solo per trasferire informazioni): l’utilizzo di un’efficace e ben strutturata narrazione consente allora di trasmettere – con un coinvolgimento non solo intellettivo, ma anche emotivo – informazioni storiche, artistiche, culturali in modo davvero avvincente e poter creare, così, un'atmosfera nuova attorno a grandi tesori artistici troppo spesso percepiti, dal pubblico più giovane, troppo lontani.

mercoledì 29 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 8 - Nel bosco della Baba Jaga: le fiabe dalla Russia

8. Nel bosco della Baba Jaga: le fiabe dalla Russia1

Sapete chi è che ci porta queste fiabe bagnate di lacrime, infuocate dal sole ardente, sferzate dal vento e dalla neve? È Ëksëkju, l’uccello con tre teste, il celeste uccello dagli occhi simili a stelle lontane e dal verso simile al rimbombo del tuono. Quello splendido uccello ha intrecciato il suo nido nel cielo infinito. Ëksëkju non teme né la tempesta, né i ghiacci, né la tormenta. Ma di tre grandi mali ha paura: la perdita della memoria, la mancanza di gratitudine, e l’indifferenza, tre tristi disgrazie di cui spesso soffrono gli uomini. E proprio quando per gli uomini i giorni si fanno duri e difficili, quando sugli animi si posa la nera polvere dell’indifferenza, quando nessuno vuol più vivere e lavorare, quando le danze e i canti vengono abbandonati e dimenticati, è proprio allora che Ëksëkju scende dal cielo, e porta una magica medicina contro i tre mali che uccidono l’anima. Ëksëkju arriva volando, si posa sulla roccia arrossata dal tramonto e racconta le antiche fiabe. E così l’antica parola risuona. Così gli animi di coloro che sono pronti ad ascoltare e a ricordare tornano a vivere. Ascoltate allora la fiaba.2

Gli sciamani jakuti della Russia siberiana narrano da millenni questa leggenda che fissa nel mito l’origine della fiaba, potente medicina celeste donata per combattere i tre grandi mali dell’umanità: la perdita della memoria storica, l’ingratitudine e l’indifferenza. Mali dell’anima da temere ancor più della tempesta, dei ghiacci, della tormenta: mali che impediscono all’uomo di essere felice. E proprio quando la luce del sole sembra fuggire, la fiaba risuona e restituisce la forza di vivere: il popolo jakuto ha compreso la potenza della narrazione fiabesca molto prima dei moderni studi che ormai ne riconoscono universalmente la necessità per la crescita delle coscienze, l’identità comunitaria, l’affinamento della sensibilità estetica e morale.
Da queste intense narrazioni degli sciamani di Siberia, ai preziosi volumi che raccolgono i racconti orali del folclore, la Russia, storico crocevia di genti, brilla per ricchezza di fiabe, così come splendono le cupole delle sue chiese. Nella Grande Madre Russia dalla grande storia, dai grandi territori estesi fino ai confini del mondo, dai grandi palazzi e dalle grandi città, dai grandi asceti e dai grandi condottieri, sono nate da sempre grandi narrazioni. Grandi narrazioni per grandi e per piccoli.
È però solo dalla seconda metà del diciottesimo secolo che comincia a svilupparsi in Russia un vero interesse per il patrimonio fiabesco nazionale. Per tutto il periodo medievale era la Chiesa a possedere il privilegio d’accesso ad una letteratura scritta, la narrazione popolare veniva invece tramandata oralmente. Anche perché utilizzare la scrittura per narrazioni profane contrastava con il sentimento religioso russo. Ad esempio, nel 1649, lo zar Aleksej Michajlovič Romanov decretava un ukaz, un decreto, nel quale veniva vietato di raccontare fiabe. E questo nonostante gli stessi zar ospitassero a corte dei narratori di professione. Si racconta, ad esempio, che Ivan il Terribile tenesse a corte tre vecchi ciechi che ogni sera gli raccontavano ciascuno una fiaba per conciliargli il sonno.
Gli sconvolgimenti sociali della Russia del secolo successivo portano ad eliminare gradualmente i confini tra l’ecclesiastico e il secolare, tra lingua scritta e orale: iniziano i primi tentativi di racconti secolari scritti, e poiché la sola forte tradizione narrativa era quella orale, ecco che la letteratura russa del diciassettesimo secolo vive una notevole influenza del folclore.
Con il Romanticismo, l’attenzione per la fiaba matura definitivamente e si inizia a coglierne il valore artistico – uno dei primi autori ad interessarsene fu Puškin – ma fino all’arrivo di Afanas’ev manca una vera e propria raccolta sistematica di autentiche fiabe russe.
Nato nel 1826 e morto nel 1871, Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev è stato uno dei più grandi raccoglitori di fiabe di tutti i tempi. Fin dalla gioventù percepisce il fascino della narrazione popolare russa finché, divenuto capace di sistematizzare questo suo interesse, compie un lavoro sterminato di raccolta, selezione e ricerca scientifica sul materiale del folclore. Tra il 1855 e il 1863 pubblica gli otto volumi delle Fiabe popolari russe che raccolgono un numero complessivo di oltre seicento fiabe corredate da note e varianti. Di tutto il materiale raccolto solo una minuscola parte – non più di una decina di testi – è frutto di una registrazione diretta dello stesso Afanas’ev, il resto è ricavato dall’ampia collezione degli archivi della Società Geografica Russa, da fiabe registrate da Vladimir Ivanovič Dal’, famoso per il suo vocabolario in quattro volumi e per la sua raccolta di proverbi popolari, da appunti di amici, da antichi libri...
‘È la prima edizione scientifica di autentiche fiabe popolari russe – scriverà un altro grande russo che dedicherà la sua vita alla fiaba: Vladimir Propp – che, per ricchezza, supera le edizioni analoghe dell’Europa Occidentale. Per la prima volta fu ampiamente riconosciuto l’alto valore artistico della fiaba popolare russa. Per le qualità scientifiche l’edizione di Afanas’ev supera di gran lunga quella dei fratelli Grimm. Afanas’ev, a differenza dei fratelli Grimm, non si concesse alcun rimaneggiamento, miglioramento, né alcuna rielaborazione letteraria. Inoltre egli inserì nella sua edizione le varianti, cosa che non fecero i fratelli Grimm’.
Riguardo alle tematiche, Afanas’ev definisce l’esistenza di tre fondamentale gruppi di fiabe russe, riconosciuti poi anche da Propp: le fiabe di animali, le fiabe di magia, le fiabe novellistiche.
A differenza della loro alta diffusione nel folclore occidentale, le fiabe di animali rappresentano una parte minima dell’intero corpus fiabistico russo, forse perché collegate ad una narrazione rivolta esclusivamente ad un pubblico infantile, al contrario delle altre fiabe diffuse anche tra gli adulti. Si tratta in generale di brevi narrazioni i cui protagonisti sono quasi sempre animali selvatici, e dove gli animali domestici appaiono raramente e in ruoli secondari. Questa particolarità suggerisce l’ipotesi che le fiabe russe di animali siano di origine molto antica, e siano state create in quello stadio di sviluppo della cultura umana in cui gli animali dei boschi rappresentavano forme primitive di sostentamento e avevano un ruolo fondamentale nella concezione del mondo e nell’attività artistica. Le trame molto semplici – anche questo avvalora la loro antica origine – si basano in genere sull’inganno di un animale furbo (ad esempio la volpe) ai danni di un altro più sciocco (ad esempio il lupo).
Le fiabe di magia rappresentano invece il patrimonio più nutrito e più affascinante del corpus fiabistico russo. Si tratta di racconti popolari di meraviglie, dove l’elemento fantastico e soprannaturale non è vissuto come straordinario, ma viene presentato come normale e abituale. Nella fiaba di magia la dimensione naturale e terrena s’intreccia continuamente con la dimensione soprannaturale e magica. È proprio su questa categoria di fiabe russe che Vladimir Jakovlevič Propp (1895 – 1970) decide di concentrare i propri studi. Nella sua fondamentale opera Morfologia della fiaba, Propp individua in un esteso corpus di racconti eterogenei alcune componenti fondamentali che si ripetono in modo uniforme e che identificano, per l’appunto, il gruppo delle fiabe di magia. Queste componenti sono definite da Propp ‘funzioni’ ovvero ‘quegli atti dei personaggi ben determinati dal punto di vista dell’importanza per il decorso dell’azione’. ‘È importante – scrive Propp – che cosa fanno i personaggi e non chi e come fa’. Da questa prospettiva le funzioni, in ogni fiaba di magia, sono straordinariamente poche – al massimo ne sono state trovate, da Propp, trentuno – e il loro avvicendamento è sempre lo stesso: dalle prime (I. Uno dei membri della famiglia si allontana dalla casa; II. All’eroe viene fatta una proibizione; III. La proibizione viene violata; IV. Il cattivo tenta di eseguire una investigazione...) alle ultime (XXVIII. Il falso eroe o il cattivo è smascherato; XXIX. L’eroe assume un nuovo aspetto; XXX. Il cattivo è punito; XXXI. L’eroe si sposa e viene proclamato re).
La grande omogeneità strutturale delle fiabe di magia e la ripetitività delle loro componenti fondamentali fanno supporre a Propp che molti elementi fiabeschi abbiano un’antichissima comune origine rituale, risalente alle cerimonie di iniziazione, probabilmente il fondamento più antico della fiaba, o al viaggio del defunto verso l’aldilà. Questo profondo substrato rituale identificato da Propp nelle fiabe russe di magia non è, d’altronde, una prerogativa tipica solo del folclore russo, ma è proprio del patrimonio fiabesco di ogni popolo: non ci si stupisca quindi di trovare una Cenerentola russa (Zoluška), una Bella e la Bestia (Zakoldovannyj carevič: il principe stregato) e molti altri temi comuni alle fiabe occidentali.
E sono proprio le fiabe di magia ad essere abitate dai personaggi più affascinanti e più famosi del folclore russo: potenti zar che abitano in maestosi palazzi, coraggiosi principi alla conquista di regni lontani con il cuore già conquistato da principesse talmente belle ‘da non potersi dire’, saggi vecchietti cui viene donato un figlio in tarda età, spiriti dispettosi, furbi contadini, fratellini orfani in balia del mondo, pope depositari del prezioso sapere dei libri, soldati stanchi di guerra, diavoli spaventosi e distruttivi, la volubile Baba Jaga nella sua casa nel bosco, e poi lupi generosi, orsi terribili e giocherelloni, corvi servizievoli, uccelli dalla bellezza mitica, il gran Dragone, Koščej l’Immortale… una maestosa varietà di figure che cantano lo stesso inno rassicurante alla vittoria del più debole. Perché sono proprio i più piccoli che, grazie alle proprie risorse interiori e all’aiuto riconoscente di un aiutante magico, superano prove ritenute impossibili e conquistano il cuore della loro innamorata, percorrendo passo passo proprio quei sentieri narrativi che Propp definisce con precisione nei propri studi.
Figure che, prima della vittoria finale sul male, devono percorrere strade che ben presto si rivelano lame a doppio taglio. La casa, l’isba, è sempre il luogo del rifugio sicuro all’inizio dell’avventura, ma nel bosco, sorretta da zampe di gallina che girano su sé stesse, può divenire la misteriosa abitazione della Baba Jaga; il bosco buio è sempre preludio sicuro alla luce e luogo in cui cogliere i segreti sussurri delle betulle, ma può anche nascondere insidie mostruose e, di nuovo, l’oscura casa della Baba Jaga. La stessa Baba Jaga è una figura fortemente ambivalente: a volte generosa e dispensatrice di doni, a volte terrificante minaccia di morte, rappresenta probabilmente la Madre Primordiale, esaltazione archetipica – direbbe Pinkola Estés – della forza selvaggia che sta nel profondo di ogni donna.
L’ultimo grande corpus del folclore russo è quello delle fiabe novellistiche. Non si tratta più di fiabe in cui l’elemento soprannaturale viene vissuto come abituale, bensì di racconti in cui il protagonista – come dice Propp – ‘sta sui gradini più bassi della scala sociale. Viene raffigurato senza alcuna idealizzazione. Nel suo aspetto non c’è nulla di bello, di marcatamente eroico; è una persona ordinaria. Contemporaneamente, però, incarna il coraggio, la decisione, l’ingegnosità, l’indistruttibile forza di spirito e la volontà di lotta e, a volte, ha un’astuzia straordinaria. Per questo vince sempre’.
Ancora più recente è poi la raccolta della tradizione orale dei popoli nel nord della Russia.
Anche in Siberia troviamo le tipiche fiabe di magia, ma qui l’elemento forse più caratterizzante è la potente figura dello sciamano. Lo sciamano è il detentore della tecnica dell’estasi, condizione che riesce a raggiungere con il canto, la danza, e il suono ipnotico del tamburo, accompagnato nell’impresa dal proprio spirito aiutante, in genere zoomorfo, che si manifesta con l’imitazione in fase estatica dei versi e delle movenze tipiche di quell’animale. A ben vedere la seduta sciamanica percorre le stesse fasi della narrazione fiabesca: l’eroe, in seguito ad una chiamata, parte dal suo mondo – ovvero esce da sé – ed entra in una dimensione atemporale – l’aldilà, o l’inconscio – supera quindi una serie di prove grazie alle proprie risorse più profonde e all’assistenza di un aiutante magico e, infine, ritorna, rafforzato spiritualmente. Lo sciamano e l’eroe della fiaba compiono in fondo lo stesso viaggio, che è poi quello della vita di ciascuno di noi. Lo sciamano delle fiabe della Siberia può diventare così l’eccezionale emblema di chi sperimenta sulla propria pelle la potenza salvifica di ogni narrazione.
E su tutto, nelle fiabe russe, la bellezza: nelle descrizioni dei palazzi, dei giardini, della natura, degli eroi, delle varie Vassilissa, Alënuška, Elena la Bella... la bellezza non è certo un valore solo delle fiabe russe, ma la storia della Russia è legata in modo misterioso alla bellezza. Basti ricordare che, nel famoso Racconto dei tempi passati redatta da monaci medievali, il principe Vladimir di Kiev, dovendo scegliere tra quattro fedi religiose, scelse la greco ortodossa perché i riti erano belli, i canti erano belli, e pareva di essere in paradiso; o basti ricordare come proprio la Russia sia la patria dell’icona la cui bellezza è tale che qualche opera verrà poi definita dalla tradizione popolare ‘acheropita’ ovvero ‘non realizzata da mano umana’. E così, con la loro capacità salvifica di sconfiggere i mali dell’umanità, di rassicurare sulla vittoria finale dei piccoli, di far crescere le coscienze, di affinare al gusto del bello, le fiabe che ancora oggi la Grande Madre Russia ci racconta ripetono instancabili la loro supplica, la loro speranza. Quella che, nell’Idiota, nutriva lo stesso Dostoevskij.
E cioè che ‘la bellezza salverà il mondo’.


1tratto da Luigi Dal Cin, Nel bosco della Baba Jaga: le fiabe dalla Russia, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 30a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2012

2 tratto da Luigi Dal Cin, Nel bosco della Baba Jaga – Fiabe dalla Russia, Franco Cosimo Panini Editore, 2012

lunedì 27 agosto 2018

Corso di tecniche di scrittura a Rossano Calabro (CS)


L'Istituto Comprensivo n. 2 di Rossano Calabro (CS) organizza per i propri insegnanti il corso di aggiornamento di 8 ore Le Tecniche di Invenzione e di Scrittura nelle giornate del 10 e 11 settembre 2018, dalle ore 9:00 alle ore 13:00.

Le Tecniche di Invenzione e di Scrittura

di
Luigi Dal Cin


Scrivere un efficace testo per ragazzi o insegnare a scrivere in modo efficace ai propri alunni richiede conoscenze tecniche specifiche. Ad esempio: come produrre un testo narrativo che sia affascinante? Da dove iniziare? Come si inventa una storia? Cos’è l’ispirazione? Come si vince la paura del foglio bianco? Come costruire una trama avvincente? Come va scelto il narratore? Come si caratterizzano i personaggi? Come dev’essere una descrizione per non annoiare? Come costruire un buon dialogo? In questo corso saranno analizzati i processi e gli elementi fondamentali che sorreggono la scrittura di tutti i testi narrativi e, in particolare, di quelli rivolti a giovani lettori, per condurre i partecipanti ad una maggiore consapevolezza sulle modalità e sulle scelte che si possono adottare e proporre. Con un’ottica operativa che consenta di applicare quanto appreso anche in un’attività didattica.

Gli obiettivi
  • fornire una competenza sugli elementi fondamentali che guidano la scrittura di testi narrativi rivolti, in particolare, a giovani lettori. Tra questi: l’invenzione come metodo, la costruzione della trama, la scelta del narratore, l’uso della descrizione, la caratterizzazione dei personaggi, la costruzione dei dialoghi, etc.
  • fornire le competenze per identificare le caratteristiche del lettore bambino;
  • fornire le competenze critiche necessarie ad un’analisi consapevole del testo narrativo, per poterne così identificare le carenze e proporre le migliorie necessarie;
  • fornire strumenti tecnici e spunti operativi per applicare quanto appreso nella propria attività didattica;
  • fornire strumenti per invogliare e motivare i ragazzi alla scrittura e alla lettura;
  • sperimentare l’analisi critica di un testo narrativo in fase di editing.

I contenuti

- La letteratura per ragazzi: caratteristiche ed elementi particolari, precisazioni.
- Lo scrittore per ragazzi i suoi possibili punti di vista.
- Il lettore.
- Un lettore particolare: il lettore bambino.
- La scrittura: espressione e comunicazione.
- I diversi tipi di testo: narrativo, descrittivo, espositivo, regolativo, argomentativo.
- L’invenzione narrativa: l’ispirazione.
- L’invenzione narrativa: il metodo.
- Le fasi dell’invenzione narrativa: ispirazione, proliferazione, selezione, conservazione, reincrocio.
- La trama e il suo movimento.
- La trama: l’informazione e l’incertezza.
- La trama: la ripetizione e la variazione.
- La trama: la prevedibilità e l’imprevedibilità.
- La ‘misdirection’.
- Le regole del ‘colpo di scena’.
- Tecniche dell’invenzione fantastica.
- La ‘sospensione temporanea dell’incredulità’.
- La comunicazione narrativa.
- L’autore implicito.
- Il lettore implicito.
- Il lettore implicito bambino e ragazzo.
- La scelta del narratore.
- Narrare in prima persona.
- Narrare in terza persona.
- Il narratore onniscente.
- La descrizione è da saltare? Efficacia nella descrizione.
- Modelli descrittivi nella letteratura dal 1800 ai giorni nostri.
- I personaggi.
- Le caratterizzazioni dei personaggi.
- Le tipologie discorsive.
- Le forme libere.
- I dialoghi.
- Le voci dei personaggi.
- I movimenti nel dialogo.
- Fiaba e favola.
- Il testo nel libro illustrato.

L’attenzione alla didattica

Durante il corso sono previsti espliciti consigli per l’applicazione diretta delle tecniche di scrittura creativa nelle attività didattiche con i ragazzi.

sabato 25 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 7 - Il grande albero delle rinascite: le fiabe dalle terre d’India

7. Il grande albero delle rinascite: le fiabe dalle terre d’India1

Quello che gli antropologi definiscono come ‘Subcontinente indiano’ è una vasta area che raccoglie territori accomunati dalle medesime radici storico–culturali: le sterminate regioni dell’India, ma anche lo Sri Lanka, il Nepal, il Bhutan, il Bangladesh e il Pakistan.
In questo esteso territorio circolano da millenni gli stessi antichissimi miti, le medesime leggende, parabole, fiabe, favole, epopee, aneddoti, racconti… le terre d’India sono ricchissime di un’immensa varietà di storie: celebrazioni di una fede nella sconfinata varietà dell’universo, nel simultaneo verificarsi di tutto, nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano escludere a vicenda. Così le storie si intersecano, in India, si sovrappongono in tutte le loro forme. Si ripetono in versioni brevi e lunghe. E quando sono lunghe, lo sono davvero, tanto che per raccontarle occorrono giorni. Giorni e notti. E quando infine le raccogliamo per metterle insieme, formano una distesa smisurata come l’Oceano dei Fiumi dei Racconti di Somadeva.
Si sosteneva, già in epoca romantica, che l’India fosse la madre di tutta la nostra letteratura. Oggi, di sicuro sappiamo che alcuni testi, come le favole e le fiabe, grazie alla loro brevità e semplicità, grazie all’universalità del loro messaggio, dall’India, dove sono nate, hanno viaggiato facilmente fino all’Occidente. Certo, la strada le ha trasformate: si sono mascherate e hanno assunto le apparenze del paese che le ha accolte.

Le fonti antiche
È necessario a questo punto comprendere le fonti in cui tutte le storie indiane affondano le loro radici. Le fonti maggiori dei racconti mitici dell’Induismo sono costituite da testi composti in sanscrito, lingua indoeuropea parente stretta del greco e del latino. La fonte più antica – in realtà, il più antico documento d’una lingua indoeuropea – è il Rgveda, raccolta di più di mille inni destinati ad accompagnare i sacrifici per le divinità e trasmessi oralmente per diversi secoli prima d’essere messi per iscritto attorno al 1200 a.C. I testi successivi sono i Brahmana (900–700 a.C.), trattati sacerdotali ricchi di dettagli che fanno riferimento alla mitologia per spiegare i riti. Un corpus di nuovi racconti viene introdotto nel Mahabharata (300 a.C.–300 d.C.), la grande epopea dell’India che consta di oltre centomila strofe: dieci volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme. In India si dice: “Quel che non c’è nel Mahabharata, non esiste da nessun’altra parte”.
Il Ramayana (200 a.C.–200 d.C.), l’altra grande epopea in lingua sanscrita, è di gran lunga più omogeneo del Mahabharata, più breve e più sofisticato nello stile letterario: consta di sette libri, il nucleo del poema è la narrazione delle avventure di Rama, ma i libri primo e settimo includono molte altre importanti narrazioni mitiche. Le fonti di gran lunga più estese per la mitologia dell’Induismo sono però i diciotto ‘grandi’ Purana e i numerosi Purana ‘minori’, vere enciclopedie del pensiero indiano, riletture induiste dei più antichi racconti mitici.
Amore, passione, rivalità, odio, tradimento, fedeltà, rinuncia, orgoglio, santità, eroismo, pazienza, temerarietà, eccesso e generosità dominano queste epopee dove gli uomini, nella loro saggezza e nella loro follia, si confrontano con il divenire del mondo. Gli dei e i demoni si mescolano ai mortali, generano dei figli dai poteri superumani, proteggono i loro devoti e li iniziano all’uso di armi terrificanti che possono annientare l’universo in un istante. Il meraviglioso si mescola al quotidiano. Un brahmano si trasforma in gazzella per soddisfare i propri desideri; una scimmia si muta in monaco errante per condurre la propria ricerca interiore; con un salto il dio Hanuman, comandante delle armate delle scimmie, sfiorando il sole che non lo brucia, supera l’oceano e atterra in Sri Lanka; gli alberi si trasformano in clave nelle mani degli eroi, le cui gesta sono degne degli effetti speciali del cinema contemporaneo.
Affacciarsi all’enorme ricchezza di questi testi antichissimi è come sporgersi su un paesaggio di straordinaria profondità, varietà e bellezza: una vertigine ammaliante.

Il Panchatantra: la favola in India e la favola in Europa
I termini ‘favola’ e ‘fiaba’, sebbene a volte siano impropriamente utilizzati in modo indistinto, non sono affatto sinonimi e si riferiscono a generi letterari differenti. La favola è un racconto breve che ha come protagonisti per lo più degli animali che personificano i comportamenti – sia le virtù che i vizi – dell’uomo, e in cui la morale è esplicita.
Benché fissate molto tardi nelle forme che noi conosciamo, le favole indiane sembrano tanto antiche quanto le favole di Esopo. Senza entrare nel problema dei rapporti tra le due tradizioni, dobbiamo riconoscere quanto il genere fosse più affine alla cultura indiana che a quella greca, se consideriamo i tratti generali costituiti da una combinazione di intenti edificanti e di divertimento, l’alternanza di versi e prosa, e l’idea stessa di mettere in scena animali dotati di sentimenti umani. L’India non conosce infatti la distinzione, così come la applichiamo noi occidentali, tra uomini e animali: la credenza nella trasmigrazione dell’anima spiega l’eterno interscambio tra i due regni. È vero che tutte le popolazioni più antiche – non solo quelle indiane – hanno sperimentato, nei racconti, una commistione tra uomini e altri esseri del creato, ma mentre il progresso nella cultura occidentale portava l’uomo e gli animali ad una netta separazione, per gli indiani essi si avvicinavano sempre più, proprio per la dottrina della metempsicosi che domina ancora oggi il pensiero induista.
Le favole indiane più antiche sono già presenti nel Mahabharata tra le molteplici storie che contiene. E così mentre Yudhisthira, uno dei cinque fratelli Pandava, eroi del Mahabharata, si chiede quale comportamento debba adottare un sovrano povero di risorse, viene introdotto un dialogo tra il Gange e l’Oceano che rispecchia esattamente la favola dell’ulivo e della canna in Esopo:

Caro sposo Oceano – disse la dea Gange – gli alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e quando viene la mia piena si oppongono presuntuosi alla corrente: è proprio per questa loro resistenza che devono poi abbandonare la propria sede. La canna invece, se vede avvicinarsi la piena, la sa accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la piena è passata, eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il tempo giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi, non dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene trascinata via”.

Ma è il successivo Panchatantra a rappresentare, senza dubbio, una delle raccolte di favole più famose, sia nel suo paese di origine che altrove. Messo per iscritto ad una data incerta, tra il I e il VI secolo d.C., il libro aveva lo scopo di iniziare i giovani principi all’esercizio del potere. L’introduzione narra di un re che aveva tre figli svogliati e indolenti. Di fronte alla sua preoccupazione, un consigliere gli raccomandò di rivolgersi ad un saggio brahmano. Quest’ultimo, Vishnusharma chiamato anche Pilpay, accettando la missione che gli stava affidando il re, affermò che giorno dopo giorno, in capo a sei mesi, i tre figli sarebbero divenuti ‘uomini senza pari nella scienza del governo’. Così compose proprio per loro il Panchatantra, il cui metodo – istruire divertendo attraverso un’affascinante sequenza di favole sulle diverse filosofie della vita – diede ottimi frutti.
Anche se le storie sono inserite le une nelle altre, ogni favola può essere letta indipendentemente: questo fattore contribuì al loro successo e alla facilità con cui hanno circolato. Ecco così che le favole indiane sono arrivate fino a noi dopo aver percorso un lungo cammino. Dall’India, ad esempio, il Panchatantra ha raggiunto la Persia dove, nel VI sec., un re sassanide lo fece tradurre in pahlavi facendovi aggiungere altre storie provenienti dal Mahabharata. Questa versione, oggi perduta, servì da base alla traduzione araba di Ibn al–Muqaffa. All’inizio della raccolta indiana, un ruolo importante viene assegnato a due sciacalli, Karakala e Damanaka. I loro nomi, in arabo Kalila e Dimna, divennero il titolo di un’opera ancora diversa, ma che sempre si riferiva ai modelli indiani. La raccolta di Ibn al–Muqaffa poi fu tradotta molte volte, di sicuro in aramaico e in greco. Tra il 1263 e il 1273 Jean de Capoue ne propose una versione latina in Liber Kalilae et Dimnae o Directorium vitae humanae che fu poi trasposta in tedesco, spagnolo e francese. Parallelamente, l’opera araba tradotta in persiano divenne Il Libro dei Saggi o La Condotta dei Re che arrivò in Francia con il titolo di Fables de Pilpay, che ci conduce diritti a La Fontaine. Quest’ultimo non esitò a riconoscere il suo debito nei confronti dei predecessori indiani: “Dirò per riconoscenza che devo gran parte del mio lavoro a Pilpay, saggio indiano”, scrisse nella prefazione del suo settimo libro di favole. Non a caso Vishnusharma–Pilpay viene comunemente chiamato anche ‘Padre delle favole dell’Occidente’.
Il rapporto tra la favola indiana e quella europea rappresenta solo uno dei numerosi tasselli letterari che legano la cultura dell’Europa e quella dell’India.
Per secoli l’aggettivo ‘misterioso’ utilizzato riferendosi all’India dai viaggiatori europei ha espresso invece, il più delle volte, un approccio superficiale, un alibi per non avventurarsi davvero nelle profondità della millenaria cultura indiana. Per contro, proprio gli europei, traducendo con passione nell’800 gli antichi testi scritti in sanscrito – lingua appannaggio della sola casta brahmanica – hanno consentito la diffusione della cultura indiana tra gli indiani stessi.

Le fiabe indiane: i temi e i personaggi
La fiaba, a differenza della favola, è invece un racconto popolare di meraviglie, dove l’elemento fantastico e soprannaturale non è vissuto come straordinario, ma viene presentato come normale e abituale. Nella fiaba la dimensione naturale e terrena s’intreccia continuamente con la dimensione soprannaturale e magica. Ma più che nei contenuti meravigliosi, la forza della fiaba risiede nel suo intento profondo: a differenza della favola che ha un intento prettamente morale, il proposito davvero meraviglioso della fiaba è quello di annunciare che una vita piena è alla portata di ciascuno nonostante le avversità e le condizioni iniziali sfavorevoli, a patto che si affrontino quelle rischiose lotte senza le quali non si può raggiungere la propria vera identità.
Il grande albero delle fiabe indiane affonda così le sue lunghe radici nella millenaria tradizione orale (che ha trovato poi forma scritta nelle fonti antiche già menzionate, nelle numerose raccolte di racconti Brahmanici e Jaina, prevalentemente in sanscrito, o nelle raccolte di racconti composti nelle antiche lingue medio–indoarie dalle quali deriva, ad esempio, una delle primissime forme delle Mille e una notte) un groviglio di saperi di sorprendente antichità che si è saputo continuamente rinnovare in nuovi germogli narrativi: proprio come fa il Banyan, detto anche ‘albero della conoscenza’, simbolo della trasformazione e del tempo perché si sa rigenerare attraverso i propri stessi rami che, con il tempo, si piegano verso il terreno e diventano poi radici di nuovi virgulti. Le storie partono dalla tradizione orale per ritornare poi a nutrirla; rimbalzano tra i manoscritti sanscriti e i cantastorie di villaggio, e ciascuno aggiunge qualcosa di nuovo. Come il Banyan, la radice orale esce dal terreno e produce rami scritti, ma questi poi continuano a crescere affondando di nuovo nella terra, e danno vita a nuove radici e a nuovi tronchi, a nuove oralità.
Al di là dei facili stereotipi occidentali, ecco allora l’India in cui si rivela l’umanità del divino e la capacità dell’uomo di trascendere i propri limiti, ecco asceti cosparsi di cenere, maharaja barbuti e fieri, aggraziate danzatrici, astuti mercanti, fruscii di seta, tessuti d’indaco e amaranto, giallo zafferano e piume di pavone, che si muovono in ambienti multiformi: città dedalo, risaie smeraldo, palazzi di arenaria rosa che risuonano del tintinnio delle cavigliere, bazar dai profumi speziati, ma anche picchi innevati, deserti desolati, fiumi sacri, foreste rigogliose abitate da animali dal pensiero sottile. Una straripante umanità tutta in movimento, con le radici nel Gange e il cuore sulle vette Himalayane.
E accanto ai fasti e alle glorie delle corti, presenti nei racconti delle caste più alte, compaiono una varietà di elementi che si condensano in alcune categorie tradizionali appartenenti alle caste più basse quali, ad esempio: le differenze tra uomo e donna, sia essa la sposa virtuosa che si immola sulla pira del marito defunto, sia essa la donna comune, assai concreta; i vari tipi umani, dall’avaro allo stolto, dal gradasso allo scaltro, dal figlio dissennato senza un briciolo di cervello al burlone o all’astuto che trionfano sulle difficoltà della vita; le sofferenze che accomunano tutti gli uomini, con demoni e dei che perseguitano i poveri mortali senza dare loro tregua...
Le divisioni di casta, tanto fondamentali nella società indiana, portano a trasferire nelle fiabe i tabù, le rivalità, i conflitti e i codici comportamentali della realtà, con la possibilità, però, di scegliersi un lieto fine che veda vincitrice la casta all’interno della quale si tramanda la fiaba.
Animali quali cobra, serpenti, aquile, scimmie, lucertole, sciacalli, tigri ed elefanti occupano di sovente, nei racconti, ruoli di rilevo.
Le fiabe indiane, poi, riportano spesso reminescenze classiche che offrono un vitale campionario di affascinanti personaggi come i naga, creature in parte umane e in parte serpenti; i kimpurusha, abitanti delle montagne con il corpo umano e la testa di cavallo; i kinnara, esseri così singolari che il loro nome è una forma interrogativa che significa letteralmente: ‘Chi è questo, un uomo?’; i rakshasa, spaventosi demoni che portano malattie terribili come la peste, divorano gli uomini e desiderano le loro donne; i vidyadhara, esseri soprannaturali abitanti sull’Himalaya, possessori di poteri magici; i valakhilia, mitici nani alti un pollice che cantano inni vedici; le asparas, bellissime ninfe celesti divenute fate nella tradizione popolare e simili, per alcune connotazioni, alle fanciulle cigno delle saghe scandinave: somiglianze che rimandano ad un antichissimo fondo comune fiabesco indoeuropeo.

E sopra tutto: la parola
E sopra tutto l’importanza e la potenza della parola pronunciata che in India si incarna addirittura in una divinità: Vac, il discorso, che in quanto inno – preghiera o formula magica – può indurre gli dei a concedere doni, e in quanto maledizione, soprattutto per bocca di un brahmano, conduce alla rovina sicura. Sono parimenti divinità in sembianze umane alcuni incantesimi, in particolare i vidya (i saperi) della letteratura Jaina, immaginati come dee col cui possesso si diventa esseri divini, vidyadara ovvero ‘portatori di saggezza’ dotati di capacità sovrannaturali.
In India la parola è efficace.
In India, ad esempio, le formule di benedizione e di maledizione non si sono scolorite, come in Europa, trasformandosi in semplici espressioni di cortesia o di sdegno. Hanno invece un effetto magico. Nessuno di noi immagina niente del genere quando augura ‘Salute!’ a chi ha appena starnutito. L’indiano che, nella medesima circostanza, esclama ‘Jiva!’ (Che tu viva!) è sicuro di impedire al soffio vitale di sfuggire dal naso di colui che starnutisce.
Una parola pronunciata che però, in India, non è immobile, per sempre definita, o che esclude il cambiamento, ma una parola che sa sempre accogliere ogni nuova varietà per comprenderla in sé. Una parola che, come già detto, sa celebrare una fede nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano per forza escludere a vicenda. Una parola il cui significato sa rinascere ogni volta che viene pronunciata.
Ecco allora l’importanza del racconto orale grazie al quale le storie rinascono e si trasformano passando di padre in figlio, di villaggio in villaggio, attraverso un tempo ciclico fatto di avvenimenti che si ripetono, apparentemente diversi, ma fondamentalmente uguali. E la fluidità della tradizione indiana, sia orale che scritta, è soltanto uno degli aspetti della più generale fluidità dell’atteggiamento indiano verso tutti i tipi di verità. Il cantastorie può recitare un mito in un certo modo, per essere poi interrotto da qualcuno fra il pubblico che, ascoltando il racconto, dice: “Noi l’abbiamo sentito diversamente”. E quando viene narrata la seconda versione, il cantastorie risponde: “Anche questa è vera, ma la tua versione è accaduta in una diversa era cosmica”, a significare che lo stesso evento si può ripetere più e più volte, ogni volta in modo leggermente diverso. E questo garantisce alle storie raccontate la possibilità di sopravvivere ai cicli cosmici, noncuranti del fatto che le pagine delle loro versioni scritte siano divorate dalle formiche o marciscano al caldo umido del monsone.
La trasformazione dell’universo viene così assecondata, e l’immaginazione dell’uomo viene fatta salva, perché ricrei ogni volta da sé l’ordine del mondo, in una nuova storia da raccontare.
È così che, dietro un’India, ecco che ne appare un’altra, e poi un’altra ancora: alla ricerca di un’essenza che è l’identità tra l’unità e la molteplicità, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra l’albero e il seme, tra l’universo e l’uomo.


1 tratto da Luigi Dal Cin, Il grande albero delle rinascite: le fiabe delle terre d’India, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 29a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2011

giovedì 23 agosto 2018

Spettacolo, relazione e workshop di tecniche di scrittura al X Convegno Adotta l'Autore, Pesaro


L'Associazione culturale Le foglie d'oro organizza presso il Teatro Sperimentale di Pesaro la decima edizione del Convegno 'Adotta l'Autore' che quest'anno - dalle ore 8:00 alle ore 18:00 - affronterà il tema: “Come costruire un percorso di promozione della lettura in classe in collaborazione con le famiglie e il territorio”.
Sono previsti quattro miei interventi in quattro momenti diversi:

dalle ore 10:00 alle ore 10:30 presso il Teatro Sperimentale di Pesaro
Mille e un racconto, mille e un modo di salvare la vita: la forza vitale della narrazione
PICCOLO SPETTACOLO LETTERARIO
A cosa serve leggere? A cosa serve scrivere? Nel mondo a volte accadono cose terribili: a cosa serve raccontare una storia, che cosa cambia? Perché racconti fiabe che finiscono bene (quando nel mondo reale spesso prevale l'arroganza, la prepotenza, la violenza e le cose finiscono male)?

dalle ore 11:00 alle ore 11:30 presso il Teatro Sperimentale di Pesaro
Signore e signori, quante storie! Piccoli appunti sullo scrivere per ragazzi
RELAZIONE
Che cosa significa scrivere un testo narrativo per un giovane lettore? Quali sono gli elementi fondamentali? Quali i possibili punti di vista dell'autore?

dalle ore 14:30 alle ore 16:00 presso il cortile di Palazzo Toschi-Mosca
Le caratteristiche di un buon testo narrativo: la descrizione.
WORKSHOP DI TECNICHE DI SCRITTURA
Come dev’essere realizzata una descrizione per non annoiare? Come si scelgono e si caratterizzano i personaggi? In questo breve workshop saranno analizzati i processi e gli elementi fondamentali che sorreggono la creazione di tutti i testi descrittivi e, in particolare, di quelli rivolti a giovani lettori. Con un’ottica operativa che consenta di applicare quanto appreso nella propria attività didattica.

dalle ore 16:15 alle ore 17:45 presso il cortile di Palazzo Toschi-Mosca
Le caratteristiche di un buon testo narrativo: la descrizione.
WORKSHOP DI TECNICHE DI SCRITTURA
Come dev’essere realizzata una descrizione per non annoiare? Come si scelgono e si caratterizzano i personaggi? In questo breve workshop saranno analizzati i processi e gli elementi fondamentali che sorreggono la creazione di tutti i testi descrittivi e, in particolare, di quelli rivolti a giovani lettori. Con un’ottica operativa che consenta di applicare quanto appreso nella propria attività didattica.

Potete consultare il programma completo QUI.
Iscrizioni aperte fino al 4 settembre. Info 0721 68612, lefogliedoro@libero.it, libreria Le foglie d'oro via Gavelli, 2, Pesaro.


mercoledì 22 agosto 2018

Scrivila, la guerra!: intervista a Torgnon (AO)

Un'intervista a cura di Roberta Gyppaz pubblicata sul numero 1 anno XXVI di Bulletin, la Rivista della Biblioteca di Torgnon (AO)




domenica 19 agosto 2018

A Sarmede (TV) corso-laboratorio di tecniche di scrittura: Dialoghi, pensieri, descrizioni, con Roald Dahl tra le righe


Sabato 15 e domenica 16 settembre 2018, dalle ore 9:30 alle ore 18:30, terrò a Sarmede (TV) presso la Casa della Fantasia il corso-laboratorio di tecniche di scrittura Dialoghi, pensieri, descrizioni, con Roald Dahl tra le righe 

Scrivere un efficace testo per ragazzi o insegnare a scrivere in modo efficace ai propri alunni richiede conoscenze tecniche specifiche. Ad esempio: in quanti modi posso descrivere lo stesso ambiente? Come posso caratterizzare un personaggio? Come rendere i suoi pensieri? Come costruire un buon dialogo che sia davvero efficace? Con lo sguardo rivolto a un grande scrittore per ragazzi che sarà nostro compagno di viaggio - Roald Dahl – in questo corso saranno analizzati, con modalità laboratoriali, i processi e le tecniche fondamentali che sorreggono la descrizione e i dialoghi di tutti i testi narrativi e, in particolare, di quelli rivolti a giovani lettori, per condurre i partecipanti ad una maggiore consapevolezza sulle modalità e sulle scelte che si possono adottare e proporre. Con un’ottica operativa che consenta di applicare quanto appreso anche in un’attività didattica.

I contenuti:
La descrizione è da saltare? Efficacia nella descrizione.
La ‘sospensione temporanea dell’incredulità’.
Come posso descrivere? Modelli letterari di descrizione dal romanticismo ai giorni nostri.
I personaggi.
La caratterizzazione dei personaggi.
Le tipologie discorsive.
Discorso diretto e discorso indiretto.
Le forme libere.
I pensieri dei personaggi.
Come rendere i pensieri dei personaggi? Modelli letterari dal romanticismo ai giorni nostri.
Il dialogo.
La voce del personaggio.
I movimenti nel dialogo.
L’editing di un testo narrativo.
Laboratori.

Per informazioni: Fondazione Stepan Zavrel

giovedì 16 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 6 - A ritmo d’incanto: le fiabe dal Brasile

6. A ritmo d’incanto: le fiabe dal Brasile1

[...] Verso sera i giaguari diedero inizio ai canti e alle danze, e la festa era così bella che anche l’uomo desiderò parteciparvi.
Nel buio non si accorgeranno che un essere umano si mescola a loro’ pensò, e così si unì alle danze.
Notte dopo notte imparò tutti i loro canti e le loro danze senza che i giaguari sospettassero la presenza di un intruso.
E fu così che apprese tutti i segreti del Mondo di Sotto, finché decise di risalire sulla terra per raccontare ai suoi fratelli tutto quello che aveva visto e imparato. [...]2

Il ritmo del canto e della danza è presentato, in questo passo di fiaba Tembé della regione di Parà, come una preziosa sapienza che un uomo, di notte, ha avuto il coraggio di rubare alla misteriosa comunità dei giaguari. È il ritmo segreto della foresta che diventerà, una volta svelato, il ritmo della festa dell’uomo.
A un’attenta lettura, tutte le fiabe brasiliane sono raccontate avendo sullo sfondo questo ritmo, a volte irrefrenabile, a volte appena sussurrato. Un ritmo d’incanto, che ha le sue radici più antiche proprio nella meraviglia profonda della natura primigenia, scandito da un fitto dialogo tra terra, acqua e cielo; piante, animali e uomini.
Il Brasile è la più grande nazione del Sud America. Il suo immenso territorio spazia dalle foreste pluviali tropicali del bacino amazzonico - le più estese del mondo - ai pascoli delle grandi praterie, dagli smisurati altopiani alle ampie spiagge di sabbia sull’oceano, dai più larghi fiumi della terra - la distanza tra una riva e l’altra del Rio delle Amazzoni, il ‘Gran Serpente Madre degli Uomini’ raggiunge verso l’estuario i 100 chilometri - alle imponenti catene montuose, dai centri urbani densamente popolati a regioni inaccessibili e segrete.
Il Brasile è un’eccezionale combinazione di svariati paesaggi. E un’eccezionale combinazione di svariate etnie.
Per primi gli indios, i cui antenati diedero vita a un imponente movimento migratorio che, attraversato lo stretto di Bering, raggiunse l’America meridionale fra il 15.000 e il 10.000 avanti Cristo. La popolazione indigena ai tempi della Conquista del Brasile è stimata in circa 5.000.000 di individui che parlavano più di 300 diversi idiomi. Oggi i dati riferiscono di 220.000 persone (ossia lo 0,2% della popolazione complessiva) e di appena 170 lingue indigene, il 95% delle quali considerate a rischio di estinzione.
Per secondi, quindi, i portoghesi. Il 9 marzo del 1500, una flotta composta da 15 navi, con a bordo 1.500 uomini, lasciò il Portogallo per dirigersi in India, con il proposito di seguire la rotta segnata da Vasco de Gama che prevedeva la circumnavigazione dell’Africa. Una spedizione imponente, affidata al comando di Pedro Alvares Cabral: ne facevano parte geografi, missionari francescani, mercanti e amministratori inviati a reggere i possedimenti coloniali in India. Per evitare le bonacce del Golfo di Guinea, le navi si spostarono sempre più a ovest finché, il 22 aprile, fu avvistata terra. Cabral affermò il diritto di sovranità del Portogallo sul territorio che chiamò Santa Cruz, nome presto abbandonato in favore di Brasile, da pau brasil, nome portoghese del prezioso e resistente legno rosso di cui abbonda la regione, che divenne il primo prodotto di esportazione dalla nuova colonia.
Trattare della storia delle relazioni tra indios e cultura europea significa entrare in una notte d’orrore rischiarata solo da pochi fuochi di anime grandi, tra cui profeti indios e alcuni missionari. La Conquista trasformò il Brasile in una ‘riserva di caccia’ al servizio della Corona portoghese. Eliminazione diretta, schiavitù e riduzione dei popoli liberi in villaggi facilmente controllabili furono i metodi usati nei primi tre secoli della Conquista. E così, brutalmente defraudati della propria terra, vittime di malattie europee – come il morbillo e il vaiolo – contro le quali non avevano difese, sterminati da guerre, prima, e poi dai garimperos (i cercatori d’oro), dai bugreiros (i cacciatori di indios che difendevano l’occupazione delle terre occidentali da parte dei coltivatori), dai seringueiros (i cercatori di caucciù), e costretti a diverse forme di dipendenza, con il tempo gli indios furono in gran parte confinati in alcune aree del Mato Grosso e in Amazzonia, dove devono convivere ancora oggi con il dramma, dalle immense conseguenze globali, della distruzione di foreste voluta dall’espansione dei coloni.
Infine i neri africani. I primi schiavi arrivarono in Brasile verso la metà del sedicesimo secolo. Dal 1559, la Corona portoghese ne formalizzò addirittura il commercio: ogni proprietario di piantagione di canna da zucchero aveva diritto di importare dall’Africa 120 schiavi l’anno. Tanto che, all’inizio del XIX secolo, i neri rappresentavano il doppio della popolazione della colonia, composta da portoghesi, indios e meticci.
È dalla originale combinazione di queste tre anime pulsanti così diverse che nasce lo speciale stile di vita brasiliano e la sua singolare cultura. Fatta, per l’appunto, di continue contaminazioni e mescolanze, dall’intreccio di tre armonie differenti. Si pensi alla famosa saudade, ‘malinconia’ caratteristica e comprensibile solo in Brasile, prodotto di popolazioni innegabilmente nostalgiche: i portoghesi (con il loro fado), i neri africani (che, come già detto, venuti in Brasile per lavorare come schiavi si ammalavano di banzo, un tipo di malinconia tanto forte da uccidere), e gli indios (con l’inestinguibile nostalgia delle loro terre conquistate e devastate dagli europei). Come impedire allora che la saudade ogni tanto tocchi il cuore brasiliano? Ma, ancor prima di questo tocco, si pensi più di tutto al suo caratteristico battito, al suo ritmo unico e vitale, che esprime una modalità così profondamente viva e lieta di assaporare l’esistenza. Anch’essa si trova ritmicamente sussultare nelle fiabe del Brasile. Come si trova nei festeggiamenti per il Carnevale, dove si fondono tradizioni coloniali portoghesi con elementi di cultura africana, e dove le protagoniste sono proprio le donne meticce, considerate simbolo della bellezza, del ritmo, della gioia di vivere. Oppure si pensi alla commistione religiosa tipica dei riti afro-brasiliani di purificazione dedicati a Iemanjà, la dea del mare, cui si offrono, tuffati dalla spiaggia, i doni più disparati: dai fiori alle boccette di profumo, dalle bambole alle bottiglie di champagne.
Queste tre anime si trovano unite in uno stesso territorio da una stessa lingua, il portoghese, che distingue il Brasile dai vicini paesi di lingua spagnola. Il ritmo d’incanto delle sue fiabe rispecchia fedelmente il fascino del portoghese proprio nella sua inflessione tipicamente brasiliana: quella che sa vestire di dolcezza ogni momento della narrazione e, oltre, ogni angolo di ogni realtà, anche il più povero e il più doloroso.
Ma le fiabe tradizionali, come sappiamo, nascono molto lontano nel tempo, nella notte dei secoli, dove un gruppo di persone si è ritrovato per condividere ciò che viveva di più profondo: le proprie speranze, i desideri più autentici, i propri valori, la saggezza guadagnata ma anche le sofferenze, o l’aspirazione ad un modo più felice di vivere insieme nel proprio ambiente. Poi spesso accade che le fiabe viaggino nelle epoche e nei luoghi, continuino a muoversi insieme alle persone, e nel loro vagare a volte si arricchiscano di elementi tipici di una cultura differente da quella in cui sono nate, assumendo così forme e versioni diverse.
Ecco allora che, per comprendere davvero il nucleo profondo delle fiabe del Brasile, è necessario trovarne la radice propria, risalire indietro alle epoche più lontane, agli albori della storia. E la storia brasiliana non ebbe inizio al tempo della Conquista: l’uomo vi si insediò in epoche ben più remote. È infatti da quelle epoche, e da quelle culture, che derivano i personaggi mitici delle antiche fiabe brasiliane, gli stessi che si trovano raffigurati sui vasi primitivi ritrovati nella regione di Santarèm, con mitiche raffigurazioni dell’anaconda ancestrale, del giaguaro, del serpente, e di figure metà donna e metà pesce.
Ecco allora il Signore degli Animali, Vaì-mahsë, o Korupira, o Putcha, lo spirito custode dei segreti degli animali della foresta e delle virtù medicinali delle piante, implacabile vendicatore degli animali uccisi in modo indiscriminato. Tutti i rumori indefinibili che rompono il silenzio della foresta provengono dal Korupira, che è un payè (sciamano) a tutti gli effetti e presiede un’assemblea formata da animali e spiriti abilissimi nelle trasformazioni. Quando Vaì-mahsë è arrabbiato incarica i suoi sudditi di portare agli uomini malattie o serpenti velenosi, o talvolta un giaguaro. Tocca agli sciamani scoprire in quale animale si sia trasformato lo spirito, e tocca a loro organizzare le cerimonie propiziatrici per condurre a un buon esito la caccia e la pesca.
La Madre d’Acqua, o Yacumama, è invece il grande spirito delle acque, entità femminile signora dei fiumi in forma di enorme serpente anaconda o boa. Quando una zattera è intrappolata in un gorgo, per placare la Madre d’Acqua, gli indios versano nell’acqua vino, alimenti o pepe perché sia liberata.
La Madre, invece, è uno spirito protettore delle piante. Gli alberi selvatici sono stati seminati dalle loro Madri che possono assumere la forma di serpenti, o di rane, o di insetti, come la formica e la vespa. Gli indios hanno per le piante lo stesso rispettoso riguardo che mostrano per gli animali. Evitano accuratamente di abbatterne una senza necessità, e sanno escogitare ingegnosi sistemi per raggiungerne i frutti senza danneggiarla. Riti propiziatori analoghi a quelli che precedono la caccia e la pesca sono in genere dedicati alle Madri delle specie commestibili di maggiore consumo. In questo caso protagoniste delle cerimonie rituali sono le donne, la cui fecondità si identifica con la fertilità della terra madre.
Poi ci sono i personaggi animali, con caratteristiche spesso antropomorfe, capaci di sentire, parlare, pensare come gli uomini, e con l’uomo capaci di comunicare. Ogni animale porta un nome proprio, conserva il proprio carattere naturale assumendo allo stesso tempo un preciso ruolo fisso nella società animale che diviene spesso specchio di quella umana. Le storie con protagonisti animali presentano così un duplice significato: da una parte ci si propone di spiegare caratteristiche ed abitudini dell’animale, dall’altra di ironizzare sui vizi dell’uomo. Ecco allora il grande saggio serpente che conosce ogni segreto della foresta; il giaguaro temuto per la sua forza e, spesso, figura dell’oppressore arrogante che, confidando troppo nelle proprie forze, finisce per diventare stupido e farsi giocare dai più piccoli: come Jabutì, la furba e audace tartaruga, protagonista di molte fiabe in cui si diverte a suonare un flauto costruito proprio con una tibia di giaguaro; e poi bradipi che si nutrono d’aria, scimmie infaticabili e nervose, pappagalli elegantissimi, ma chiassosi e stupidi. Questi mitici personaggi si sono poi, come tutto nella cultura brasiliana, mescolati con l’immaginario introdotto dagli europei, e con quello trascinato con sé dagli schiavi africani.
Ecco perché tutte le fiabe brasiliane sono raccontate sul battito del cuore della natura. E la foresta tropicale ha da sempre il potere di coinvolgere totalmente i sensi dell’uomo che la abita: i suoni giungono da ogni parte, in continuazione, e lo avvolgono in un mantello sonoro che è come una seconda pelle. Un ritmo travolgente o appena bisbigliato, inizialmente conosciuto solo dai giaguari, che diventerà, una volta svelato, il ritmo della festa dell’uomo.
È forse oggi il medesimo ritmo incarnato dalle incantevoli canzoni brasiliane che raccontano, in una moderna narrazione, storie da tramandare in musica; il ritmo di una danza innata che le differenti anime di un immenso nuovo popolo seguono al passo, nella difficile ma esaltante ricerca di un futuro comune.


1 tratto da Luigi Dal Cin, A Ritmo d’Incanto: le fiabe del Brasile, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 28a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2010

2 tratto da ‘La festa per il miele’, Luigi Dal Cin, A Ritmo d'Incanto – Fiabe dal Brasile, Franco Cosimo Panini Editore, 2010

lunedì 13 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 5 - Echi di mari lontani: le fiabe dall’Oceania

5. Echi di mari lontani: le fiabe dall’Oceania1

I popoli delle isole raccontano che Tangaroa dal volto tatuato fu il primo di tutti gli antenati. Per molto tempo Tangaroa visse dentro la sua conchiglia che girava da sola nel buio dello spazio infinito. Allora infatti non c’era il sole, non c’era la luna, e non c’erano né la terra né le montagne. Non esisteva ancora l’uomo, né gli uccelli, né i pesci, né i cani, e nessun altro essere vivente. E non c’era ancora l’acqua, né salata né dolce.
Alla fine di un lungo tempo Tangaroa diede un colpo lieve alla sua conchiglia, che si aprì. Tangaroa allora si alzò in piedi sulla conchiglia e cominciò a gridare nello spazio infinito: “Chi c’è sopra? Chi c’è sotto?” ma non ebbe alcuna risposta. Si sentiva solo la sua voce, perché non ce n’era nessun’altra. “Sabbia, vieni da me!” comandò. Ma la sabbia non c’era ancora. “Nessuno mi obbedisce? – disse Tangaroa – Allora farò io!”. Così Tangaroa sollevò in alto la cupola della sua conchiglia fino a formare la volta del cielo. E poiché all’interno della sua conchiglia aveva molte altre conchiglie, ne prese una seconda, la sgretolò in minuscoli pezzettini, e creò la sabbia. Tangaroa cominciò in questo modo a creare ogni cosa che esiste. E poiché Tangaroa aveva conchiglie, ecco che ogni cosa creata ha una sua conchiglia. Il cielo è una conchiglia per il sole, la terra e le stelle, poiché li contiene. La terra è una conchiglia per le pietre e l’acqua, e per le piante che vi crescono. La conchiglia di un uomo è una donna, perché è da lei che nasce.
È così che, nell’universo, ogni cosa che esiste ha una sua conchiglia.2

Proveniamo tutti dalle conchiglie, racconta questo mito della creazione narrato a Tahiti.
Ovvero: proveniamo tutti dall’Oceano, di cui possiamo ancora ascoltare echi lontani impressi, da tempi ancestrali, come impronte nelle nostre anime.
L’Oceano Pacifico è il più grande mare del nostro pianeta. Dalle sue acque emergono qua e là più di diecimila isole, grandi e piccole, che collegano come un ponte Asia, Indonesia e Australia all’America.
Da sempre il Pacifico ha esercitato un influsso misterioso e carico di immaginario sull’uomo occidentale. Navigatori, esploratori, missionari; ma anche scrittori, come Melville e Stevenson, pittori, come Gauguin, hanno affrontato il grande viaggio alla ricerca di un altrove, e ci hanno riportato gli echi di quell’immenso Oceano.
Sono proprio il viaggio e l’altrove originario a costituire le dimensioni più profonde che accomunano tutte le culture dei popoli dell’Oceania: sia quella del piccolo gruppo degli Aborigeni che abitano l’immensa Australia, sia quella delle numerose genti che abitano piccole porzioni di terra emersa nel Pacifico, a volte addirittura difficili da trovare sulle mappe. Non è però dalle carte geografiche che si conosce la realtà dei giorni e della vita, e il loro vero valore. L’occhio mediatico globalizzato non riesce a scorgere ciò che è più piccolo. E la cultura espressa da un popolo, la vivacità, l’arte, le sue fiabe non dipendono da grandezze geografico–quantitativo–mercificabili, ma da sintonie secolari con la natura, da relazioni di condivisione comunitaria, da profondità di rapporti spirituali con l’altrove da cui tutti proveniamo e verso il quale stiamo tutti navigando.
Ed è proprio nelle narrazioni delle fiabe che i popoli dell’Oceania vivono ancora oggi la loro forte relazione con un altrove originario e con il viaggio. E proprio nelle fiabe – preziosi reperti antropologici – si possono trovare le risposte sulle loro origini.
Gli antenati dei popoli delle Isole dell’Oceania provenivano dal continente asiatico. I primi viaggi di queste popolazioni verso il Pacifico si fanno risalire a circa 4.000 anni fa, e furono possibili grazie ad abili conoscenze delle tecniche di navigazione. La ragione per cui gli antenati si lanciarono in lunghi viaggi colonizzatori a bordo delle loro canoe oceaniche, i waca, resta un mistero. Si sa però che le loro imbarcazioni potevano trasportare fino a 250 persone, oltre alle piante e agli animali necessari per iniziare una nuova vita. Samoa e Tonga furono i primi gruppi di isole ad essere occupate: queste regioni possono essere considerate come la patria della cultura polinesiana, che qui sviluppò i suoi caratteri peculiari. Da questa zona l’esplorazione continuò verso le Isole Marchesi e della Società; alcune tribù proseguirono poi verso sud–est fino a raggiungere Rapa Nui (l’Isola di Pasqua), verso nord fino alle Isole Hawaii, verso sud–ovest fino ad Ao–tea–roa, la terra della grande nuvola bianca, ovvero la Nuova Zelanda. Nel 1300 d.C. il periodo di espansione era completato, e per i popoli delle Isole iniziò un tempo di stabilità e di equilibrio (che durò fino all’arrivo dei primi uomini bianchi). Li accomunava il fatto di considerarsi tutti provenienti da un’unica madrepatria mitica chiamata Hawaiki, simbolo di un’origine lontana, dell’altrove leggendario degli antenati, da cui era partita la Grande Emigrazione narrata poi di padre in figlio.
La storia moderna dei Maori della Nuova Zelanda, ad esempio, prende il via dalle sette gloriose canoe. I viaggi relativi a ciascuna canoa hanno segnato scie leggendarie e lasciato qua e là indizi misteriosi. I loro racconti, tramandati oralmente, hanno sempre costituito presso i Maori motivo oltre che di orgoglio anche di diritto: derivano infatti dalla discendenza dagli antenati della propria canoa sia la fondazione del proprio gruppo tribale sia il proprio diritto territoriale. Ma la definizione delle culture originarie delle terre d’Oceania – dove la fioritura dei racconti dei primordi appare non a caso più copiosa che in ogni altra parte del mondo – non è sempre univoca, anzi: lascia invece spazio a influenze e connessioni legate alla complessità degli eventi migratori solo in parte ricostruiti dagli studiosi, dove cosmogonia e antropogenesi si intrecciano in una successione evolutiva che abbraccia i fenomeni naturali, gli uomini e le divinità. Il poema sacro che, ad esempio, gli indigeni cantarono al capitano Cook al suo arrivo connetteva la famiglia reale con le generazioni divine, le stelle, le piante e gli animali. Correva l’anno 1769, ed erano passati quasi due secoli dal primo contatto che i popoli delle Isole avevano avuto con i papalagi ‘venuti dal cielo’ (così gli abitanti di Samoa e di Tonga chiamavano gli stranieri: dato che il loro mondo non andava oltre le loro isole, chiunque non vi appartenesse non poteva che provenire da altri mondi). Fu infatti nell’anno 1595 che Mendaña scoprì le Isole Marchesi e sbarcò a Tohu Ata. Quando ne ripartì, poco dopo, i suoi archibugieri avevano già ucciso duecento isolani senza un vero motivo.
Eppure, nonostante l’arrivo devastante dei papalagi e secoli di colonialismo europeo che modificò le strutture sociali originarie e che diffuse epidemie decimando le popolazioni, l’atteggiamento di accoglienza del viaggiatore è un valore profondo e naturale per questi popoli che non hanno mai dimenticato che i loro padri sono stati essi stessi viaggiatori: uomini ‘altri’ in terre altrui. Ancora oggi, quando si arriva in barca presso qualsiasi piccola isola dell’Oceania, non si pensi di gettare l’ancora nella baia e di fare subito il bagno. La prima cosa da fare è la visita al capo. E non si tratta affatto di una pratica doganale, al contrario: è un’usanza piacevole. Ci si accorda per un appuntamento al quale andare con un dono simbolico: un pezzo di stoffa, una bevanda, del cibo, una propria moneta. Si verrà accolti dal capo dell’isola che domanderà da dove si viene e come si vive laggiù. Si tratta di accoglienza, di autentico desiderio di conoscere l’altro e il suo altrove, perché nella sua pellegrina condizione si riconosce la propria antica storia di viaggiatori.
Esiste un altrove mitico e un grande viaggio anche nei racconti tradizionali degli Aborigeni d’Australia.
Gli antenati degli Aborigeni arrivarono dal sud dell’India circa 50.000 anni fa, quando l’Oceano non era così profondo e lasciava emergere terre e isole che fecero da ponte per il loro passaggio: raggiunsero così il vastissimo e disabitato territorio dell’Australia, ricco di selvaggina, e vi si stabilirono. Poi il ponte di terre fu sommerso e l’Australia rimase isolata dal resto del mondo insieme alle sue tribù aborigene che per millenni vissero in equilibrio perfetto con la natura arrivando ad una popolazione di trecentomila unità. Appena un secolo dopo l’arrivo del capitano Cook, avvenuto nell’anno 1770, gli aborigeni erano ridotti a meno di sessantamila, cacciati dai loro territori e spinti in quelli più inospitali, decimati da massacri e malattie sconosciute, considerati dall’ignoranza e dalla protervia dei colonizzatori come il gradino più basso dell’umanità. Eppure la società aborigena presentava la più complessa struttura organizzativa mai concepita in una cultura tribale, esprimeva una profonda concezione spirituale della vita e una raffinata mitologia che trovavano espressione nelle cerimonie sacre, nelle danze, nei canti e nella narrazione. La cosmogonia aborigena possiede un tale fascino da essere spesso paragonata a quella greca, e si riferisce sempre ad un altrove mitico temporale: il ‘Tempo del Sogno’. Gli aborigeni sono convinti che il mondo e l’uomo siano stati creati da Eroi soprannaturali in seguito scomparsi, essendo saliti in cielo o scesi sotto terra. Nel ‘Tempo del Sogno’ questi Eroi mitici si risvegliarono e cominciarono ad uscire in superficie. I loro ‘luoghi di nascita’ rimasero impregnati di una grande forza spirituale, e caratterizzarono la sacralità del territorio aborigeno. La maggior parte dei miti della creazione raccontano proprio dei viaggi di questi grandi Eroi che, nelle loro peregrinazioni, modificarono il paesaggio imprimendogli la configurazione attuale. Questa percezione della sacralità delle origini, del viaggio, e dell’ambiente, e tutte le conseguenti leggi tribali che sostenevano un perfetto equilibrio tra l’uomo e la natura – e che hanno ancora molto da insegnare alla società occidentale – hanno permesso a questo popolo di sopravvivere in pace per migliaia di anni, con regole troppo sagge per essere poi comprese dai colonizzatori bianchi.
I miti del ‘Tempo del Sogno’ e le regole di comportamento umano dettate dagli Eroi sono considerate dagli aborigeni rivelazioni di verità assolute: ogni tribù ha il dovere di conservarle e di insegnarle ai giovani attraverso le fiabe. Sono fiabe, dunque, sempre ambientate in un altrove temporale, legate a un viaggio e a un luogo sacro appartenente ad una complessa geografia totemica, in cui si muovono gli animali del ‘Tempo del Sogno’: canguri che a quel tempo camminavano ancora a quattro zampe, spaventosi serpenti, koala vanitosi, uccelli favolosi, rane, tartarughe, balene... in questi racconti c’è una costante predilezione per gli animali: per via del carattere distinto delle differenti specie animali che permette, in modo più efficace rispetto a quanto possa avvenire con i membri indifferenziati della specie umana, di sostenere le diverse parti in una narrazione.
L’altrove e il viaggio, dunque, figure comuni alle genti delle Isole e alle genti aborigene, ma anche l’amore per la terra: faticata conquista dopo pericolosi mitici viaggi attraverso l’Oceano per gli uni, espressione della sacralità creatrice nel ‘Tempo del Sogno’ per gli altri; sempre rappresentata nelle fiabe da scenari naturali affascinanti.
Tematiche profonde, vissute dai popoli aborigeni e dai popoli delle Isole in un costante completo equilibrio tra uomo e ambiente; destinate in seguito – nelle vicende di entrambi i popoli – ad essere travolte da una stessa storia estranea e violenta fatta di assimilazione forzata; oggi finalmente toccate da un comune vitale processo di rivalutazione culturale: delle proprie identità, delle proprie tradizioni, dei propri luoghi.
Resa possibile proprio grazie agli antichi echi delle fiabe ancora oggi narrate.



1tratto da Luigi Dal Cin, Echi di mari lontani: le fiabe dell’Oceania, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 27a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2009

2tratto da ‘L'universo conchiglia’, Luigi Dal Cin, Echi d'Oceano – Fiabe dall'Oceania, Franco Cosimo Panini Editore, 2009

giovedì 9 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 4 - I canti dei ghiacci: le fiabe dalle Regioni Artiche

4. I canti dei ghiacci: le fiabe dalle Regioni Artiche1

Hai mai sentito come cantano i ghiacci? – chiese la nonna – I ghiacci cantano, tesoro, cantano di continuo nelle lunghe notti nordiche. E sai perché? È il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco che si volta e si rivolta nel suo giaciglio millenario, e così il ghiaccio canta, scricchiola di continuo. Da questo canto la nostra gente sa che il Grande Vecchio è vivo. È lui che ci manda i banchi di aringhe e fa risalire i fiumi al salmone. Ed è lui che ci manda le foche e le grasse balene. Poi fa scendere sulla terra la notte perché tutti possano riposare: l’uomo, gli animali e i pesci sotto i ghiacci. Ma per non farci perdere la speranza che poi tornerà la luce, nella notte ci manda l’aurora boreale: la luce colorata che danza nel cielo”.2

I ghiacci cantano. Così raccontano i Lapponi nelle lunghe notti polari. E già affiorano tra le righe, come punte di immensi iceberg, alcuni elementi caratteristici delle fiabe delle regioni artiche. I ghiacci e i canti. Il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco, l’uomo, gli animali.
Ma innanzitutto: cosa si intende per ‘regioni artiche’? Artico è una parola greca che significa, semplicemente, settentrione. E sappiamo che in cima al settentrione del mondo c’è il Mare Glaciale, ricoperto di ghiacci, circondato da un circolo di terre con due sole aperture: lo Stretto di Bering che lo mette in contatto con l’Oceano Pacifico, e il più vasto passaggio tra Groenlandia, Islanda e Norvegia che lo mescola all’Oceano Atlantico. D’accordo: questo a nord... ma con quale criterio si traccia un limite artico a sud? Il più semplice lo fa coincidere con il Circolo Polare Artico: le regioni artiche sarebbero quindi tutte quelle che si trovano al di sopra del 66° grado e ½ di latitudine nord, ovvero tutte quelle dove nel solstizio d’estate il sole non tramonta, e nel solstizio d’inverno il sole non sorge. Si tratta di una peculiarità che certamente caratterizza la vita artica, e che di sicuro colpisce il nostro immaginario. Il difetto di questo criterio è che non considera condizioni climatiche e geografiche locali, per cui include, ad esempio, territori il cui clima è fortemente mitigato dalla Corrente del Golfo. Il criterio più appropriato è invece quello che traccia una linea immaginaria che unisce le terre dove la temperatura media del mese di luglio non supera i 10° Centigradi (50° F), la stessa linea che segna il limite settentrionale delle foreste e quindi l’inizio della tundra, classificando così come artiche regioni simili per condizioni estreme di clima e meteorologia, e con simili caratteristiche di vita animale e vegetale.
E proprio le medesime rigide condizioni ambientali hanno contribuito a forgiare popolazioni con abitudini ed espressioni culturali molto simili. Una distinzione, volendo, può essere fatta tra gli abitanti delle regioni artiche che vanno dalla Groenlandia alla Ciukotka (l’estrema punta dell’Asia), passando per la costa più settentrionale dell’America, caratterizzate da mari così profondi da permettere l’avvicinarsi delle balene (popoli dediti quindi prevalentemente alla pesca: Eschimesi – a seconda delle lingue parlate: Inuit, Jupik, Sugpiaq – Aleutini, Kutchin, Ciukci, Korjaki e Jukaghiri) e gli abitanti del continente euroasiatico dalla costa bassa e paludosa (popoli che quindi vivono prevalentemente di caccia più all’interno: Jakuti, Êveni, Êvenki, Dolgany, Samioedi – a seconda delle lingue: Nganasani, Enci, Neci – e Lapponi). Ma, a parte tale distinzione, si può parlare a pieno titolo di una ‘cultura artica’ comune a tutti questi popoli.

Quali sono, allora, gli elementi caratteristici della produzione mitico–fiabesca della cultura artica? Torniamo ai temi del racconto in apertura. Dicevamo: i ghiacci e i canti. Ovvero: l’ambiente naturale e la comunità degli uomini.
Un ambiente durissimo come quello artico ha da sempre educato – anche per esigenze di sopravvivenza, nella certezza del reciproco aiuto – ad un forte senso di appartenenza alla comunità. Da soli, tra i ghiacci, non si sopravvive. Nel villaggio artico, così, non sono contemplate iniziative autonome: tutto è collettivo, e tutto viene deciso all’interno della comunità considerata sacra. La vita sociale è molto intensa, e si esprime attraverso feste le cui componenti basilari sono il canto, la danza, la condivisione del cibo, il dono. È talmente importante questo momento collettivo che numerosi racconti artici attribuiscono alla divinità il dono del canto, della danza e della festa, ritenuti dunque sacri. Le feste si svolgono nella ‘casa degli uomini’, l’ampia casa comune costruita appositamente per consentire l’incontro di tutta la comunità: è qui che si preparano gli eventi più importanti della vita del villaggio – dall’organizzazione della caccia alla balena, alla festa in onore dei morti – ed è qui che l’esperienza, la saggezza e i valori di una generazione passano all’altra attraverso la parola e, in particolare, la narrazione.
E la fiducia nel bene collettivo non poteva non investire anche l’uso della parola: la possibilità che la parola del prossimo possa contenere una menzogna è del tutto estranea alla cultura artica. E così la parola, essendo sempre in sé verità, ha la stessa potenza di una formula magica, ed è considerata talmente preziosa che un proverbio aleutino afferma: ‘la parola che esce indebolisce l’uomo, quella trattenuta invece lo rafforza’.
Non bisogna però credere che, nella ‘casa degli uomini’, ogni narrazione debba trasmettere sempre un messaggio che, se esistente, è spesso legato alle doti di concretezza e pragmatismo necessarie alla sopravvivenza in un ambiente così ostile. Nelle lunghe notti artiche molte storie sono state inventate soltanto per incantare se è vero che, alla domanda di un noto antropologo riguardo al significato della storia appena trascritta, il narratore eschimese replicò: “Noi non ci preoccupiamo troppo del significato di una storia. A noi basta che sia divertente. Sono gli uomini bianchi che devono sempre trovare ragioni o significati in ogni cosa, come i bambini che chiedono sempre: perché?”.
Pur così unite nel bene collettivo, le diverse comunità sono state però spesso tra loro ostili, e il tema del conflitto ha creato un filone narrativo specifico: racconti di battaglie per controllare rotte commerciali, di spedizioni per rapine, di feroci guerre etniche dove i popoli nemici si trasformano, nella sequenza delle trasmissioni orali, in mostruosi cannibali. Ma la causa più frequente di ostilità riportata dai racconti artici è di sicuro il rapimento delle donne del popolo vicino, spesso organizzato con vere e proprie spedizioni. E in effetti, mentre l’uomo mostrava la propria superiorità basata sulla forza fisica, la presenza di una moglie in grado di confezionargli abiti adatti ad un ambiente così ostile era essenziale alla sua sopravvivenza: una moglie, al di là di ogni altra considerazione, rappresentava un bene talmente prezioso che, in sua mancanza, era possibile anche il rapimento.

Riguardo ai temi emersi dal racconto in apertura, dicevamo poi: il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco, l’uomo, gli animali. Ovvero: il rapporto dell’uomo con il mondo animale e con quello dello spirito.
Nelle culture artiche è sempre presente un Essere Supremo creatore dell’universo. Tuttavia si tratta di un dio così coinvolto, anch’esso, nei rigori dell’ambiente che viene ad essere in realtà una personificazione divina del principio vitale della natura artica, connotato spesso in forma di animale. Allo stesso modo, l’influenza sovrastante del duro ambiente in cui vivono quei popoli si è espressa da sempre in una percezione animistica della realtà circostante. Ogni roccia, ogni lago, ogni animale possiede un’anima, proprio come il genere umano – generato dallo sfregamento, all’orizzonte, della terra con il cielo – che dunque, all’inizio dei tempi, non emergeva sulle altre specie viventi. Questo spiega come nelle fiabe artiche spesso non ci sia distinzione netta tra uomini e animali, tanto da potersi facilmente tramutare gli uni negli altri, e come non emerga una separazione – tipicamente occidentale – tra elementi naturali e soprannaturali che invece convivono. Da ciò consegue, ad esempio, la ricca ritualità legata alla necessità di riconciliazione con l’anima della balena o dell’orso appena uccisi, e spiega anche perché i Lapponi, prima di tagliare un albero, cacciavano l’anima della pianta con un colpo di bastone per evitare che, una volta nel fuoco, volendone fuggire distruggesse l’abitazione. La diversificazione dell’uomo dagli animali avviene solo per intervento dell’Essere Supremo che, ad un certo punto della storia, invia un suo eroe (spesso il Corvo, ma anche l’Aquila o il Figlio del Sole) perché possa educare l’umanità trasmettendole la cultura.
Innanzitutto il canto e la danza, ma anche l’arte della costruzione del tamburo sacro, oggetto che, nello sviluppo culturale dei popoli artici, ha sempre svolto un ruolo di fondamentale importanza. Non solo come amato strumento musicale durante le feste, ma anche come oggetto divinatorio: lo sciamano, infatti, batte il tamburo su cui sono stati dipinti i segni simbolici tradizionali e, ad ogni colpo, un indicatore intagliato scivola sopra quei segni fornendo gli elementi necessari per pronunciare l’oracolo. Ecco dunque affiorare la figura forse più emblematica per comprendere la cultura artica e le sue narrazioni: lo sciamano, l’eletto in grado di partire dal mondo umano per viaggiare nel mondo degli spiriti. Questo ruolo di intermediario ha sempre presupposto, oltre ad un lungo apprendistato, attitudini psichiche e intellettuali non comuni, una sorta di ‘vocazione’. Lo sciamano diventa così detentore della tecnica dell’estasi, condizione che riesce a raggiungere con il canto, la danza, e il suono ipnotico del tamburo. Si crede allora che la sua anima abbandoni il corpo e viaggi nell’aldilà per incontrare e vincere gli spiriti che hanno causato la malattia derubando l’anima all’infermo. Lo sciamano è accompagnato nell’impresa dal proprio spirito aiutante, in genere zoomorfo, che si manifesta con l’imitazione in fase estatica dei versi e delle movenze tipiche di quell’animale. Alla fine lo sciamano ritorna, risvegliandosi dall’estasi, per spiegare dov’è trattenuta l’anima del malato e quale eventuale sacrificio sia necessario per la sua liberazione. A ben vedere la seduta sciamanica percorre le stesse fasi di ogni narrazione fiabesca: l’eroe, in seguito ad una chiamata, parte dal suo mondo – ovvero esce da sé – ed entra in una dimensione atemporale – l’aldilà, o l’inconscio – supera quindi una serie di prove grazie alle proprie risorse più profonde e all’assistenza di un aiutante magico e, infine, ritorna, rafforzato spiritualmente. Lo sciamano e l’eroe della fiaba compiono in fondo lo stesso viaggio, che è poi quello della vita di ciascuno di noi.
È così che, allora, proprio lo sciamano artico può diventare l’eccezionale emblema di chi sperimenta sulla propria pelle la potenza salvifica di ogni narrazione.

Ma battendo il tamburo e imitando lo spirito aiutante zoomorfo, lo sciamano svela anche il profondo legame che unisce da sempre uomo e animali, uomo e ambiente: lo sciamano canta i canti dei ghiacci.
Canti che oggi sembrano sciogliersi in disperate grida d’aiuto di fronte ai segni allarmanti di un legame, quello tra uomo e ambiente, che invece si sta spezzando.
Segni che, come tutti i segni ormai tracciati, sono ancora più evidenti sul bianco più candido.


1tratto da Luigi Dal Cin, I canti dei ghiacci: le fiabe delle Regioni Artiche, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 26a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2008

2tratto da ‘Il Grande Vecchio dall'aspetto di tricheco’, Luigi Dal Cin, I canti dei ghiacci – Fiabe dalle Regioni Artiche, Franco Cosimo Panini Editore, 2008