giovedì 9 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 4 - I canti dei ghiacci: le fiabe dalle Regioni Artiche

4. I canti dei ghiacci: le fiabe dalle Regioni Artiche1

Hai mai sentito come cantano i ghiacci? – chiese la nonna – I ghiacci cantano, tesoro, cantano di continuo nelle lunghe notti nordiche. E sai perché? È il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco che si volta e si rivolta nel suo giaciglio millenario, e così il ghiaccio canta, scricchiola di continuo. Da questo canto la nostra gente sa che il Grande Vecchio è vivo. È lui che ci manda i banchi di aringhe e fa risalire i fiumi al salmone. Ed è lui che ci manda le foche e le grasse balene. Poi fa scendere sulla terra la notte perché tutti possano riposare: l’uomo, gli animali e i pesci sotto i ghiacci. Ma per non farci perdere la speranza che poi tornerà la luce, nella notte ci manda l’aurora boreale: la luce colorata che danza nel cielo”.2

I ghiacci cantano. Così raccontano i Lapponi nelle lunghe notti polari. E già affiorano tra le righe, come punte di immensi iceberg, alcuni elementi caratteristici delle fiabe delle regioni artiche. I ghiacci e i canti. Il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco, l’uomo, gli animali.
Ma innanzitutto: cosa si intende per ‘regioni artiche’? Artico è una parola greca che significa, semplicemente, settentrione. E sappiamo che in cima al settentrione del mondo c’è il Mare Glaciale, ricoperto di ghiacci, circondato da un circolo di terre con due sole aperture: lo Stretto di Bering che lo mette in contatto con l’Oceano Pacifico, e il più vasto passaggio tra Groenlandia, Islanda e Norvegia che lo mescola all’Oceano Atlantico. D’accordo: questo a nord... ma con quale criterio si traccia un limite artico a sud? Il più semplice lo fa coincidere con il Circolo Polare Artico: le regioni artiche sarebbero quindi tutte quelle che si trovano al di sopra del 66° grado e ½ di latitudine nord, ovvero tutte quelle dove nel solstizio d’estate il sole non tramonta, e nel solstizio d’inverno il sole non sorge. Si tratta di una peculiarità che certamente caratterizza la vita artica, e che di sicuro colpisce il nostro immaginario. Il difetto di questo criterio è che non considera condizioni climatiche e geografiche locali, per cui include, ad esempio, territori il cui clima è fortemente mitigato dalla Corrente del Golfo. Il criterio più appropriato è invece quello che traccia una linea immaginaria che unisce le terre dove la temperatura media del mese di luglio non supera i 10° Centigradi (50° F), la stessa linea che segna il limite settentrionale delle foreste e quindi l’inizio della tundra, classificando così come artiche regioni simili per condizioni estreme di clima e meteorologia, e con simili caratteristiche di vita animale e vegetale.
E proprio le medesime rigide condizioni ambientali hanno contribuito a forgiare popolazioni con abitudini ed espressioni culturali molto simili. Una distinzione, volendo, può essere fatta tra gli abitanti delle regioni artiche che vanno dalla Groenlandia alla Ciukotka (l’estrema punta dell’Asia), passando per la costa più settentrionale dell’America, caratterizzate da mari così profondi da permettere l’avvicinarsi delle balene (popoli dediti quindi prevalentemente alla pesca: Eschimesi – a seconda delle lingue parlate: Inuit, Jupik, Sugpiaq – Aleutini, Kutchin, Ciukci, Korjaki e Jukaghiri) e gli abitanti del continente euroasiatico dalla costa bassa e paludosa (popoli che quindi vivono prevalentemente di caccia più all’interno: Jakuti, Êveni, Êvenki, Dolgany, Samioedi – a seconda delle lingue: Nganasani, Enci, Neci – e Lapponi). Ma, a parte tale distinzione, si può parlare a pieno titolo di una ‘cultura artica’ comune a tutti questi popoli.

Quali sono, allora, gli elementi caratteristici della produzione mitico–fiabesca della cultura artica? Torniamo ai temi del racconto in apertura. Dicevamo: i ghiacci e i canti. Ovvero: l’ambiente naturale e la comunità degli uomini.
Un ambiente durissimo come quello artico ha da sempre educato – anche per esigenze di sopravvivenza, nella certezza del reciproco aiuto – ad un forte senso di appartenenza alla comunità. Da soli, tra i ghiacci, non si sopravvive. Nel villaggio artico, così, non sono contemplate iniziative autonome: tutto è collettivo, e tutto viene deciso all’interno della comunità considerata sacra. La vita sociale è molto intensa, e si esprime attraverso feste le cui componenti basilari sono il canto, la danza, la condivisione del cibo, il dono. È talmente importante questo momento collettivo che numerosi racconti artici attribuiscono alla divinità il dono del canto, della danza e della festa, ritenuti dunque sacri. Le feste si svolgono nella ‘casa degli uomini’, l’ampia casa comune costruita appositamente per consentire l’incontro di tutta la comunità: è qui che si preparano gli eventi più importanti della vita del villaggio – dall’organizzazione della caccia alla balena, alla festa in onore dei morti – ed è qui che l’esperienza, la saggezza e i valori di una generazione passano all’altra attraverso la parola e, in particolare, la narrazione.
E la fiducia nel bene collettivo non poteva non investire anche l’uso della parola: la possibilità che la parola del prossimo possa contenere una menzogna è del tutto estranea alla cultura artica. E così la parola, essendo sempre in sé verità, ha la stessa potenza di una formula magica, ed è considerata talmente preziosa che un proverbio aleutino afferma: ‘la parola che esce indebolisce l’uomo, quella trattenuta invece lo rafforza’.
Non bisogna però credere che, nella ‘casa degli uomini’, ogni narrazione debba trasmettere sempre un messaggio che, se esistente, è spesso legato alle doti di concretezza e pragmatismo necessarie alla sopravvivenza in un ambiente così ostile. Nelle lunghe notti artiche molte storie sono state inventate soltanto per incantare se è vero che, alla domanda di un noto antropologo riguardo al significato della storia appena trascritta, il narratore eschimese replicò: “Noi non ci preoccupiamo troppo del significato di una storia. A noi basta che sia divertente. Sono gli uomini bianchi che devono sempre trovare ragioni o significati in ogni cosa, come i bambini che chiedono sempre: perché?”.
Pur così unite nel bene collettivo, le diverse comunità sono state però spesso tra loro ostili, e il tema del conflitto ha creato un filone narrativo specifico: racconti di battaglie per controllare rotte commerciali, di spedizioni per rapine, di feroci guerre etniche dove i popoli nemici si trasformano, nella sequenza delle trasmissioni orali, in mostruosi cannibali. Ma la causa più frequente di ostilità riportata dai racconti artici è di sicuro il rapimento delle donne del popolo vicino, spesso organizzato con vere e proprie spedizioni. E in effetti, mentre l’uomo mostrava la propria superiorità basata sulla forza fisica, la presenza di una moglie in grado di confezionargli abiti adatti ad un ambiente così ostile era essenziale alla sua sopravvivenza: una moglie, al di là di ogni altra considerazione, rappresentava un bene talmente prezioso che, in sua mancanza, era possibile anche il rapimento.

Riguardo ai temi emersi dal racconto in apertura, dicevamo poi: il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco, l’uomo, gli animali. Ovvero: il rapporto dell’uomo con il mondo animale e con quello dello spirito.
Nelle culture artiche è sempre presente un Essere Supremo creatore dell’universo. Tuttavia si tratta di un dio così coinvolto, anch’esso, nei rigori dell’ambiente che viene ad essere in realtà una personificazione divina del principio vitale della natura artica, connotato spesso in forma di animale. Allo stesso modo, l’influenza sovrastante del duro ambiente in cui vivono quei popoli si è espressa da sempre in una percezione animistica della realtà circostante. Ogni roccia, ogni lago, ogni animale possiede un’anima, proprio come il genere umano – generato dallo sfregamento, all’orizzonte, della terra con il cielo – che dunque, all’inizio dei tempi, non emergeva sulle altre specie viventi. Questo spiega come nelle fiabe artiche spesso non ci sia distinzione netta tra uomini e animali, tanto da potersi facilmente tramutare gli uni negli altri, e come non emerga una separazione – tipicamente occidentale – tra elementi naturali e soprannaturali che invece convivono. Da ciò consegue, ad esempio, la ricca ritualità legata alla necessità di riconciliazione con l’anima della balena o dell’orso appena uccisi, e spiega anche perché i Lapponi, prima di tagliare un albero, cacciavano l’anima della pianta con un colpo di bastone per evitare che, una volta nel fuoco, volendone fuggire distruggesse l’abitazione. La diversificazione dell’uomo dagli animali avviene solo per intervento dell’Essere Supremo che, ad un certo punto della storia, invia un suo eroe (spesso il Corvo, ma anche l’Aquila o il Figlio del Sole) perché possa educare l’umanità trasmettendole la cultura.
Innanzitutto il canto e la danza, ma anche l’arte della costruzione del tamburo sacro, oggetto che, nello sviluppo culturale dei popoli artici, ha sempre svolto un ruolo di fondamentale importanza. Non solo come amato strumento musicale durante le feste, ma anche come oggetto divinatorio: lo sciamano, infatti, batte il tamburo su cui sono stati dipinti i segni simbolici tradizionali e, ad ogni colpo, un indicatore intagliato scivola sopra quei segni fornendo gli elementi necessari per pronunciare l’oracolo. Ecco dunque affiorare la figura forse più emblematica per comprendere la cultura artica e le sue narrazioni: lo sciamano, l’eletto in grado di partire dal mondo umano per viaggiare nel mondo degli spiriti. Questo ruolo di intermediario ha sempre presupposto, oltre ad un lungo apprendistato, attitudini psichiche e intellettuali non comuni, una sorta di ‘vocazione’. Lo sciamano diventa così detentore della tecnica dell’estasi, condizione che riesce a raggiungere con il canto, la danza, e il suono ipnotico del tamburo. Si crede allora che la sua anima abbandoni il corpo e viaggi nell’aldilà per incontrare e vincere gli spiriti che hanno causato la malattia derubando l’anima all’infermo. Lo sciamano è accompagnato nell’impresa dal proprio spirito aiutante, in genere zoomorfo, che si manifesta con l’imitazione in fase estatica dei versi e delle movenze tipiche di quell’animale. Alla fine lo sciamano ritorna, risvegliandosi dall’estasi, per spiegare dov’è trattenuta l’anima del malato e quale eventuale sacrificio sia necessario per la sua liberazione. A ben vedere la seduta sciamanica percorre le stesse fasi di ogni narrazione fiabesca: l’eroe, in seguito ad una chiamata, parte dal suo mondo – ovvero esce da sé – ed entra in una dimensione atemporale – l’aldilà, o l’inconscio – supera quindi una serie di prove grazie alle proprie risorse più profonde e all’assistenza di un aiutante magico e, infine, ritorna, rafforzato spiritualmente. Lo sciamano e l’eroe della fiaba compiono in fondo lo stesso viaggio, che è poi quello della vita di ciascuno di noi.
È così che, allora, proprio lo sciamano artico può diventare l’eccezionale emblema di chi sperimenta sulla propria pelle la potenza salvifica di ogni narrazione.

Ma battendo il tamburo e imitando lo spirito aiutante zoomorfo, lo sciamano svela anche il profondo legame che unisce da sempre uomo e animali, uomo e ambiente: lo sciamano canta i canti dei ghiacci.
Canti che oggi sembrano sciogliersi in disperate grida d’aiuto di fronte ai segni allarmanti di un legame, quello tra uomo e ambiente, che invece si sta spezzando.
Segni che, come tutti i segni ormai tracciati, sono ancora più evidenti sul bianco più candido.


1tratto da Luigi Dal Cin, I canti dei ghiacci: le fiabe delle Regioni Artiche, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 26a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2008

2tratto da ‘Il Grande Vecchio dall'aspetto di tricheco’, Luigi Dal Cin, I canti dei ghiacci – Fiabe dalle Regioni Artiche, Franco Cosimo Panini Editore, 2008